Da un mese e mezzo il parlamento, per nostra fortuna, è silente sulla riforma forense. In questo periodo sono però nati strani pensieri sul portavoce del CUPS. Qualcuno pensa che sia partito per lidi tropicali, qualcun altro pensa che sia affetto da una perenne febbricola serotina. Per rasserenare gli animi il promotore dell’idea del CUPS con un post lanciato il 24 novembre 2010 è vivo e vegeto. Non ha alcuna intenzione di abbandonare un organismo che, da gennaio a marzo, ha contribuito a ottimizzare un lavoro di contrasto alla riforma forense mettendo in comune le forze di tutti i soggetti che vi hanno partecipato.
Buone feste a tutti i patrocinatori!
Il portavoce.
Stefano Mannacio
Siamo sempre tutti con te!! ringraziandoti per quello che hai fatto per difendere la nostra categoria..
Mi associo con sincera gratitudine … Stefano Santo subito !
Leggo con piacere che il nostro portavoce è vivo e vegeto e che in tutto questo periodo di silenzio dal fronte riforma forense non è mai venuto meno ai suoi “doveri istituzionali”.
Non avevo alcun dubbio in merito!
Per quanto concerne la questione già discussa dal collega laziale Dispendi sono concorde con quanto da lui detto ovvero che le associazioni rappresentative della nostra categoria già esistono e non credo ci sia la necessità di creare altri soggetti associativi.
Vanno tuttavia rafforzati quelli esistenti e ciò tramite una maggiore partecipazione intesa in primis come numero di iscritti e quindi come partecipanti alle assemblee societarie in tutte le tipologie di sedute ed in subordine tramite un efficace quanto forte azione di coordinamento tra le varie realtà associative comunque nel rispetto della loro autonomia.
Cordialità.
Egregio sig. patroc. strag. Mannacio Stefano (papà (e mamma) del CUPS), e credo d’interpretare il sentimento comune di tutti noi PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI, per noi tutti, è stato veramente un fatto eccezionale, un vero passo da gigante, gigante, aver coagulato diverse entità biologiche (associazioni di categoria maggiormanete rappresentative) e creato il CUPS; mai era successo una cosa simile, finalmente tutti uniti per un unico scopo, e non come nel passato, quando ugniuno cercava di coltivare il proprio orticello e solo quello, mentre il bollettino meteo segnalava sempre temporale. Solo insieme per ogni singolo, ed ogni singolo per l’insieme, possiamo progettare la miglior tettoia protettiva dei nostri minuscoli orticelli, solo insieme possiamo invertare l’ariete che ci permetterà di bucare i muri di gomma dei poteri forti (basta rendere la punta incandescente e perforante), solo insieme possiamo controllare il nostro territorio, e controllare, ed impedire eventualmente, se c’è qualcuno di noi che rema contro, o peggio che ci venda a chi tenta di eliminarci per indedia:
NOI volevamo, vogliamo assolutamente, immancabilmente, certamente, come non mai, costi quello che costi, diventare ed esser PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI, per legge, e non soltanto per funzione assunta, al momento del conferimento d’incarico del ns. cliente.
NOI VOGLIAMO ESSER PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI PROTAGONISTI, h24, e non soltanto degli esperti (lo sappiamo di esserlo).
NOI VOGLIAMO, ASSOLUTAMENTE VOGLIAMO, IL RICONOSCIMENTO DELLA GIURIDICO DELLA NS. PROFESSIONE, PER SEMPRE, FINO ALLA FINE DEI SECOLI.
… E parafrasando Giuseppe Garibaldi, nell’anno dei 150 anni dell’Unità d’Italia, <>.
p.s. Purtroppo molti noi, sconoscono il significato di unità, ma fortunatamente ci sono gli altri a ricordacelo, RICORDIAMECELO.
ore 13.17 del 4-6-2011:
Egregio sig. patroc. strag. Mannacio Stefano (papà (e mamma) del CUPS), e credo d’interpretare il sentimento comune di tutti noi PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI, per noi tutti, quest’anno, è stato veramente un fatto eccezionale, un vero passo da gigante, gigante, l’aver coagulato diverse entità biologiche (associazioni di categoria maggiormanete rappresentative) e creato il CUPS; mai era successo una cosa simile, finalmente tutti uniti per un unico scopo, e non come nel passato, quando ugniuno cercava di coltivare il proprio orticello e solo quello, mentre il bollettino meteo segnalava sempre temporale. Solo insieme per ogni singolo, ed ogni singolo per l’insieme, possiamo progettare la miglior tettoia protettiva per nostri minuscoli orticelli per poi unirli, solo insieme possiamo inventare l’ariete che ci permetterà di bucare i muri di gomma dei poteri forti (basta rendere la punta incandescente e perforante), solo insieme possiamo controllare il nostro territorio, e impedire eventualmente, se c’è qualcuno di noi che rema contro, o peggio che ci sta vendendo a chi, tenta di eliminarci per asfissia:
NOI volevamo, vogliamo assolutamente, immancabilmente, certamente, come non mai, costi quello che costi, diventare ed esser PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI, per legge, e non soltanto per funzione assunta, al momento del conferimento d’incarico del ns. cliente.
NOI VOGLIAMO ESSER PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI PROTAGONISTI, h24, e non soltanto degli esperti (lo sappiamo di esserlo).
NOI VOGLIAMO, ASSOLUTAMENTE VOGLIAMO, IL RICONOSCIMENTO GIURIDICO DELLA NS. PROFESSIONE, PER SEMPRE, FINO ALLA FINE DEI SECOLI.
… E parafrasando il ns. amato Giuseppe Garibaldi, nell’anno dei 150 anni dell’Unità d’Italia, “O si fa il PATROCINATORE STRAGIUDIZIALE, o si muore!”.
p.s. Purtroppo molti noi, sconoscono il significato di unità, ma fortunatamente ci sono gli altri a ricordacelo, RICORDIAMECELO.
Stefano Mannacio, TUTTI NOI, ritenendo d’interpretare il sentimento comune, ti vorremmo quale genitore del CUPS, relatore e commentatore del neo-nato CUPS, alla assemblea ordinaria ANEIS, del 10-6-2011 (ore 15). Grazie.
Cassazione Civile 2° Sez. Sent. 15530 del 11-6-2008: Avvocati, professionisti, consulenza legale, stragiudiziale, attività riservata. Fonte: http://www.studiolegalelaw.it/new.asp?id=5240:
“Al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l’assistenza in giudizio, cfr.Cass. 12840/2006), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione”
Corte di giustizia – Sentenza C-94/2004 CIPOLLA Federico / PORTOLESE Rosaria in FAZARI (causa C-94/04); Sentenza in GU C 331, del 30-12-2006, pag. 2 : Avvocati, tariffe, libertà dei servizi legali stragiudiziali, aboliti i minimi. Fonte:curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=IT&Submit=Rechercher$docrequire=alldocs& numaff=C-94/04&datefs=&datefe=&nomusuel=&domaine=&mots=&resmax=100
“Le prime tre questioni sollevate nell’ambito della causa C 94/04 (CIPOLLA Federico contro PORTOLESE Rosaria in FAZARI) e la questione sollevata nell’ambito della causa C 202/04 (MACRINO Stefano+CAPODARTE Claudia / MELONI Roberto, causa C-202/2004) devono dunque essere risolte, dichiarando che gli artt. 10 CE, 81 CE e 82 CE non ostano all’adozione, da parte di uno Stato membro, di un provvedimento normativo che approvi, sulla base di un progetto elaborato da un ordine professionale forense quale il CNF, una tariffa che fissi un limite minimo per gli onorari degli avvocati e a cui, in linea di principio, non sia possibile derogare né per le prestazioni riservate agli avvocati né per quelle, come le prestazioni di servizi stragiudiziali, che possono essere svolte anche da qualsiasi altro operatore economico non vincolato da tale tariffa.”
Direttiva Bolkestein. La direttiva Bolkestein, formalmente direttiva 2006/123/CE, è la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea relativa ai servizi nel mercato interno, presentata dalla Commissione Europea nel febbraio 2004. La direttiva è stata definitivamente approvata da Parlamento e Consiglio, profondamente emendata rispetto alla proposta originaria, il 12 dicembre 2006, divenendo la direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006.
La direttiva è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (L 376) il 27 dicembre 2006[1] ed è stata recepita dall’Italia mediante il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 aprile 2010. La direttiva è basata sugli articoli 47.2 e 55 del Trattato della Comunità Europea. La procedura legislativa di riferimento è la codecisione. Frits Bolkestein, Commissario europeo per il mercato interno della Commissione Prodi, ha curato e sostenuto questa direttiva, che per semplicità viene indicata con il suo nome. Il processo di approvazione della direttiva è stato a suo tempo interrotto in seguito alle forti polemiche che sono nate intorno ad essa; in particolare, la direttiva è stata indicata come la prova di una deriva liberista che, secondo la sinistra radicale, i verdi ed alcune formazioni sociali, starebbe investendo l’Unione Europea. L’accesa discussione sulla direttiva ha avuto anche riflessi in altri campi: è stata individuata come una delle cause della disaffezione dei cittadini europei verso le istituzioni, ed è stata considerata una delle ragioni del fallimento del referendum francese, nonché di quello olandese, sulla Costituzione europea.
1 Obiettivi della direttiva
2 Contenuto della proposta originaria
2.1 Libertà di stabilimento
2.2 Libera circolazione dei servizi
2.3 Fiducia reciproca tra stati
3 Discussione sulla direttiva
3.1 L’idraulico polacco
3.2 Il sostegno alla Bolkestein
4 Le modifiche del Parlamento
5 Note
6 Bibliografia
7 Voci correlate
8 Collegamenti esterni
Obiettivi della direttiva: Secondo il parere della Commissione Europea, che nel luglio 2002 ha presentato una relazione sullo stato del mercato interno dei servizi, l’integrazione del mercato interno in questo ambito è ben lontana dallo sfruttare in pieno le potenzialità di crescita economica. La direttiva Bolkestein ha quindi come obiettivo di facilitare la circolazione di servizi all’interno dell’Unione Europea, perché i servizi rappresentano il 70% dell’occupazione in Europa, e la loro liberalizzazione, a detta di numerosi economisti, aumenterebbe l’occupazione ed il PIL dell’Unione Europea. La direttiva Bolkestein si inserisce nello sforzo generale di far crescere competitività e dinamismo in Europa per rispettare i criteri della Strategia di Lisbona. Inoltre la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei prestatori di servizi sono importanti diritti dei cittadini europei, e sono alcune delle libertà economiche principali presenti già nel Trattato di Roma del 1957. La direttiva non intende disciplinare nello specifico l’ampio settore dei servizi: si propone come un direttiva-quadro, che pone poche regole molto generali e lascia agli stati membri la decisione su come meglio applicare i principi da essa enunciati. Il principio generale a cui si ispira è stato individuato dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella famosa sentenza Cassis de Dijon, del 1979, relativa alla libera circolazione dei beni. La Corte aveva sostenuto che se un bene è prodotto e commerciato legalmente in uno stato europeo, gli altri stati membri non possono limitarne la circolazione bensì presupporre la sua conformità. Si tratta in parole povere di un principio di mutua fiducia, che ha permesso di eliminare in un colpo solo molte minute differenze di regolamentazioni che limitavano i progressi del mercato interno. La direttiva Bolkestein intende utilizzare un simile principio nel settore dei servizi. La direttiva non riguarda alcuni ambiti disciplinati a parte de altre norme comunitarie: i servizi finanziari, le reti di comunicazione elettronica, i servizi di trasporto, il settore fiscale.
Contenuto della proposta originaria: La direttiva è organizzata su tre ambiti, concernenti l’eliminazione degli ostacoli alla libertà di stabilimento, l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei servizi e, infine, l’instaurazione della fiducia reciproca tra stati membri.
Libertà di stabilimento: La direttiva Bolkestein intende semplificare le procedure amministrative, eliminare l’eccesso di burocrazia e soprattutto evitare le discriminazioni basate sulla nazionalità per coloro che intendono stabilirsi in un altro paese europeo per prestare dei servizi. Per raggiungere questi obiettivi propone la creazione di sportelli unici dove i prestatori di servizi possano portare a termine tutte le formalità necessarie, la possibilità di espletare queste procedure via internet, l’eliminazione di requisiti burocratici inutili, autorizzazioni discriminatorie e discriminazioni basate sulla nazionalità.
Libera circolazione dei servizi: La libera circolazione dei servizi si differenzia dallo stabilimento perché riguarda i casi di chi si sposta temporaneamente da un paese all’altro con l’obiettivo di fornire un servizio limitatamente nel tempo. In questi casi non sono necessarie le registrazioni che si compiono nel caso dello stabilimento, ma si deve decidere a quale legge risponde chi attraversa le frontiere con questo scopo. La direttiva adotta il principio del paese di origine, secondo il quale un prestatore di servizi che si sposta in un altro paese europeo deve rispettare la legge del proprio paese di origine. Questo per incoraggiare i prestatori di servizi a spostarsi senza doversi informare su 25 diverse legislazioni nazionali. Il principio del paese d’origine è stato totalmente abbandonato nella versione definitiva della direttiva. Il principio del paese d’origine riguarda principalmente aspetti legali quali diplomi, regolamenti, necessità di autorizzazioni particolari. Ne è quasi del tutto escluso il diritto del lavoro, che è già regolamentato dalla direttiva 96/71/CE. Sono dunque escluse dal principio del paese d’origine tutte le tutele fondamentali dei diritti dei lavoratori, compreso il salario minimo, salute, igiene, sicurezza, diritti delle gestanti e puerpere, diritti di bambini e giovani, parità di trattamento tra uomo e donna, ferie retribuite. Resterebbero soggetti al principio del paese di origine il diritto di sciopero, le condizioni di assunzione e di licenziamento, gli oneri previdenziali. Esistono anche altre deroghe generali al principio di origine, soprattutto materie regolate a parte da altre norme europee, tra cui le principali sono: i servizi postali; la distribuzione di energia elettrica, gas, acqua; le qualifiche professionali; i diritti d’autore; le ragioni di ordine pubblico, salute o sicurezza. Esistono deroghe transitorie al principio di origine: trasporto di fondi, giochi d’azzardo, recupero giudiziario di crediti. In casi eccezionali, uno stato può applicare deroghe per casi individuali al principio di origine, tra cui le principali sono: esercizio di una professione sanitaria, tutela dell’ordine pubblico.
Fiducia reciproca tra stati: La direttiva promuove l’armonizzazione delle legislazioni dei paesi membri in ambiti quali la tutela dei consumatori, l’assicurazione professionale e la risoluzione delle controversie; promuove anche la collaborazione tra autorità nazionali e la creazione di codici di condotta.
[modifica] Discussione sulla direttiva
Manifestanti contro la Direttiva Bolkestein
Il principio del paese di origine è stato subito molto contestato e ha destato vive preoccupazioni: i suoi oppositori sostengono che possa causare del dumping sociale, ovvero stimolare una corsa al ribasso per quanto riguarda le tutele sociali, i diritti dei lavoratori e il livello delle retribuzioni.
L’idraulico polacco: Il timore che la scarsa protezione sociale dei nuovi stati membri erodesse le tutele dei vecchi stati membri è stato rappresentato in Francia dallo spauracchio dell’idraulico polacco, che avrebbe distrutto gli equilibri del mercato del lavoro francese. Lo stesso timore si è concretizzato in un fatto più concreto in Svezia, dove si è verificato il caso Vaxholm. In Svezia non esiste un legge sul salario minimo, che viene invece concordato dalla libera concertazione tra sindacati e associazioni di datori di lavoro. Per questo motivo una ditta lettone, che aveva vinto un appalto di costruzione nella cittadina di Vaxhlom, si era ritenuta autorizzata, alla luce della direttiva 96/71/CE, di applicare il salario lettone. Questo caso ed altre situazioni analoghe avevano aumentato le preoccupazioni per l’esistenza di troppe zone grigie nella legislazione proposta, che avrebbero portato a una corsa al ribasso delle tutele sociali. Preoccupazioni analoghe erano state espresse per quel che riguarda la tutela dell’ambiente e dei consumatori.
Il sostegno alla Bolkestein: I sostenitori della direttiva Bolkestein, tra cui si annoverano i dieci nuovi stati membri e il Regno Unito, oltre a gruppi politici di estrazione liberale, ritengono invece poco fondati i timori di dumping sociale, perché il diritto del lavoro è quasi del tutto escluso dell’ambito della direttiva e perché sostengono che tutti i paesi europei presentano un livello di tutele sociali più che sufficiente. Un altro argomento a favore della direttiva è che l’aumento dell’occupazione e della produttività legati alla liberalizzazione dei servizi in Europa porterebbero ai lavoratori vantaggi di gran lunga superiori agli svantaggi iniziali.
Le modifiche del Parlamento: Per rispondere a questi diffusi timori, il Partito Popolare Europeo ed il Partito Socialista Europeo, i due principali partiti del Parlamento europeo, hanno raggiunto un accordo su un testo di compromesso che elimina del tutto il principio del paese di origine, ed inserisce numerose eccezioni e protezioni per evitare ogni possibile riduzione della tutela sociale [2] . Il testo del compromesso, adottato dal Parlamento Europeo in seduta plenaria il 16 febbraio 2006, viene spesso indicato con il nome della relatrice socialista tedesca Evelyne Gebhardt. La prima votazione è stata respinta con 153 voti a favore e 486 contro, seguendo la proposta del Partito Verde Europeo e della Sinistra Europea di respingere in toto la direttiva. Il compromesso è stato approvato con 391 voti a favore, 213 contrari e 34 astenuti. Hanno votato a favore gran parte dei popolari, dei liberali e dei socialisti, con l’eccezione dei socialisti francesi. Si sono invece pronunciati contrari la maggioranza dei rappresentanti della Sinistra Europea, dei Verdi, Indipendenza/Democrazia, l’Unione per l’Europa delle nazioni. Il nuovo testo distingue l’accesso ai mercati europei, che deve essere il più possibile libero e de-regolamentato, dall’esercizio delle attività di servizi, che devono essere quelle del paese di destinazione per non interferire con gli equilibri dei mercati locali. Vengono esplicitate numerose eccezioni prima ambigue, come l’esclusione dei servizi di interesse generale forniti dallo Stato, o il fatto che la direttiva si riferisce ai settori già privatizzati, e non riguarda la privatizzazione o l’abolizione dei monopoli. Oltre all’esclusione dei servizi di interesse generale, ovvero i servizi gestiti dallo Stato nell’ambito della sua politica sociale, già esclusi nella prima versione della direttiva, viene aggiunta la possibilità di escludere alcuni servizi di interesse economico generale. Infine, viene ribaltato l’obbligo di controllo sulle attività di prestazione temporanea di servizi, che nella versione originale era riservata allo stato di origine; è ora lo stato di destinazione a garantire il rispetto del proprio diritto nazionale. Il compromesso ha ottenuto l’approvazione della Confederazione Europea dei Sindacati, oltre che della maggioranza del Parlamento Europeo. Si può affermare che il compromesso abbia soddisfatto l’ampia categoria di coloro che avevano visto nella prima versione della direttiva troppe carenze nelle tutele sociali. Rimangono voci di insoddisfazione, che possono essere ricondotte a due categorie: coloro che speravano in una direttiva più liberale, e ritengono che i vantaggi economici saranno ora gravemente limitati, e parlano di un’occasione perduta per l’Europa; coloro che, sia all’estrema destra che all’estrema sinistra, abbracciano posizioni nazionaliste e non condividono il principio della limitazione dei poteri degli stati e l’equiparazione dei diritti dei cittadini di altri paesi europei. Il testo della direttiva così emendato è poi ritornato all’esame del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea, come previsto dalla procedura legislativa di codecisione, che l’hanno definitivamente approvato il 12 dicembre 2006. Gli Stati membri avrebbero dovuto recepirla nei rispettivi ordinamenti nazionali entro il 28 dicembre 2009. La Commissione Europea (DG Mecato interno e servizi) ha pubblicato una manuale di attuazione della direttiva, destinato ai governo nazionali[3]. L’Italia ha formalmente recepito la direttiva, con quattro mesi di ritardo sul termine indicato dall’Unione europea, mediante il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 del 23 aprile 2010.
Da http://www.oua.it : “Patrocinatori stragiudiziali sulle barricate”.
No alla riforma forense. Se venisse approvata riserverebbe infatti l’attività stragiudiziale in forma autonoma solo agli avvocati. Abolendo figure professionali come i patrocinatori stragiudiziali, gli esperti di infortunistica stradale o i consulenti specializzati in rami del diritto. In tutto 50 mila professionisti. È l’allarme lanciato, tra gli altri, da Aneis, Associazione nazionale esperti infortunistica stradale che oggi conta su 1.500 iscritti e che richiederà alla Commissione giustizia della camera di essere ascoltata in audizione sulla riforma dell’ordinamento professionale forense. Lo ha spiegato il presidente dell’Associazione, Luigi Cipriano. Domanda. Presidente, quali le problematiche della riforma forense? Risposta. La riforma riserva l’attività stragiudiziale agli avvocati impedendoci così la possibilità di lavorare. È una norma contraria alla giurisprudenza degli ultimi 60 anni e influirebbe a cascata su tutti gli altri ordini professionali, che potrebbero a loro volta richiedere riserve ed esclusive. D. Quali le vostre mosse dal punto di vista politico? R. Abbiamo richiesto un’audizione in Commissione giustizia della camera per spiegare tutte le problematiche legate alla proposta di legge all’esame del parlamento. Un impianto normativo che obbliga l’utenza a rivolgersi all’avvocato, reintroduce i minimi tariffari e limita la libera concorrenza. D. Cosa ne pensa invece della mediazione obbligatoria? R. Non abbiamo grosse remore sul provvedimento dato che si tratta di una normativa che permette a tutti l’accesso alla conciliazione e non solo agli avvocati. La contraddizione con la riforma forense è evidente: da una parte l’attività stragiudiziale viene riservata, dall’altra la conciliazione apre le porte a tutti i laureati. D. Qual è il profilo dei vostri iscritti? R. Siamo patrocinatori stragiudiziali, trattiamo il risarcimento del danno, quindi facciamo in sostanza mediazioni e quando non ci riusciamo sono gli avvocati a portare avanti questa parte di attività in tribunale. Devo dire che fino a oggi la collaborazione con la professione forense è sempre stata totale e vogliamo appunto che continui in questo modo, senza riservare agli avvocati qualsiasi attività di patrocinio stragiudiziale. Come associazione, oltre a far parte di Assoprofessioni, abbiamo costituito il CUPS (Comitato Unitario Patrocinatori Stragiudiziali), a cui hanno aderito altre sette associazioni. Data: 03/02/2011. Fonte: ITALIA OGGI
Cedere o non cedere la nostra ultima goccia di sangue al vampiro?
MEDIAZIONE CIVILE.
Ennesimo problema con il quale ci dovremo cimentare fra pochi mesi, se la corte costituzionale non stopperà definitivamente la mediazione civile.
Come ultima spiaggia ci resta la Corte di Giustizia Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Se la Consulta non bloccherà la mediazione per sempre, finirà che la ns. attività stragiudiuziale, si limiterà a far da passacarte, e dovremo subire le angherie, più o meno palesi, delle compagnie assicurative e dei grandi debitori.
I costi della mediazione sono veramente impopolari, mostruosi, sono previsti anche parcelle per i consulenti del mediatore (tutto a carico di chi chiede giustizia), e se non otteniamo un verbale di mediazione positivo per noi (a parte che non sono ripetibili i ns. onorari a terzi, resterà tutto a carico del ns. cliente), nell’andare in giudizio, si dovranno spendere altri soldi per il contributo unificato, e successivamente gli onorari del CTU tecnico e del CTU medico. Insomma il ministro Alfano, che pare lascerà la poltrona che sarà riempita dalla Gelmini, ha inteso eliminare l’arretrato civile, impedendo di fatto la giustizia (a causa dei costi bestiali) ai più, anzicchè riempire l’organico carente sin dalla disfatta di Caporetto, crea un vuoto incolmabile per la maggior parte dei cittadini, un vuoto riembile solo da chi economicamente sta già bene di suo. No euro? No Giustizia! .. e così i poteri forti e le ingiustizie, troveranno un terreno superspianato, senza neanche un po’ di filo spinato steso, e ghigneranno guardando la GIUSTIZIA negli occhi.
Rcordate il 1992? … No, poverino, non è giusto che vada in giro con le manette ai polsi mentre va in udienza penale, poverino gli stanno sciupando il doppio petto in cashimire con quelle manacce mentre lo tengo a braccetto.
Incomprensibile il perchè, il Ministro Alfano abbia recepito in tal guisa, la direttiva europea sulla mediazione non prevede l’obbligatorietà della mediazione, pena l’improcedibilità del giudizio, ma semplicemente comunica al cittadino europeo, che è stata fabbricata “una nuova arma” per risolvere i suoi problemi di giustizia, che può utilizzare o meno, indipendentemente se poi opterà nell’andare in giudizio, insomma come per il risarcimento diretto, la “nuova arma” è stata confezionata ad hoc, per i poteri forti al fine di puntarla per legge, contro le tempie delle parti deboli (NOI). Forse ci considerano non siamo cittadinei europei, ma ancora c……ni (come ci apostro’ qualcuno tempo addietro) servi della gleba al servizio del principe di turno. Ma Dio è grande, e fortunatamente non paga il sabato (non si sa quando), e guai a coloro che versano il sangue dei giusti.
Da http://www.oua.it: Notiziario OUA, Data: 17/5/2011.
7 FONDATE QUESTIONI D’INCOSTITUZIONALITÀ DEL D.Lgs. 28/10 SULLA MEDIACONCILIAZIONE OBBLIGATORIA
1. Violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La obbligatorietà della mediaconciliazione viola la Costituzione, tanto più perché collegata alla mancata previsione di necessità dell’assistenza dell’avvocato. Anzitutto va chiarito che il legislatore delegante – in conformità alla prescrizione impartita dalla Direttiva Europea – aveva stabilito che dovesse essere introdotto un meccanismo di conciliazione, ma non ne aveva affatto previsto la obbligatorietà, né aveva consentito che essa potesse essere considerata condizione dì procedibilità della domanda giudiziaria. Il d.lgs. 28/10 è, quindi, viziato per eccesso di delega, in quanto appare evidente che una condizione di procedibilità di una domanda giudiziaria, ex art. 24 Cost., può essere introdotta esclusivamente dal legislatore, e quindi il Governo avrebbe potuto farlo soltanto se ne fosse stato autorizzato dalla legge di delega. Si ha così la palese violazione degli artt. 76 e 77 Cost. per contrasto tra la legge delega e il decreto legislativo. Va, in proposito, osservato che l’art. 60 della legge 69/09 (legge delega) al terzo comma lett. a) prescrive che nell’esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri, al seguente principio e criterio direttivo “ … a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia”. Orbene, in aperto contrasto con la prescrizione della legge delega, l’art. 5 del d.lgs. 28/10 configura il procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, di fatto precludendo l’immediato accesso alla giustizia. Il d.lgs. 28/10, concependo il procedimento di mediazione quale propedeutico alla domanda giudiziale, rischia di compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale. Non può argomentarsi, in senso contrario, che la mediazione di cui all’art. 5 del d.lgs. 28/10 non preclude l’accesso alla giustizia, poiché attivato il procedimento di mediazione e trascorsi i quattro mesi di cui all’art. 6, l’accesso alla giustizia è possibile, e la condizione di procedibilità della domanda è assolta. Ed infatti, che dopo il procedimento di mediazione la parte possa adire il giudice è circostanza del tutto evidente, e certamente non v’era bisogno che la legge ricordasse una ovvietà del genere, poiché nel nostro sistema è impensabile che, dopo una condizione di procedibilità, non si possa procedere, ovvero non si dia alla parte il diritto della tutela giurisdizionale. Pertanto, se l’art. 60 della l. 69/09 aveva stabilito che la mediazione doveva darsi “senza precludere l’accesso alla giustizia”, essa, evidentemente, non faceva riferimento alla possibilità della parte di adire il giudice dopo la mediazione, cosa scontata e ovvia, ma faceva riferimento alla necessità che la mediazione non condizionasse il diritto di azione, e quindi non fosse costruita come condizione di procedibilità. Né può argomentarsi che il problema non sussiste per la brevità del termine di quattro mesi, cosicché la condizione di procedibilità dell’art. 5 sarebbe compensata dal termine breve fissato nell’art. 6. Ciò, infatti, non può sostenersi perché il termine breve di quattro mesi era già stato fissato dalla legge delega, e precisamente nella lettera q) dell’art. 60, la quale, al tempo stesso, però, voleva che il procedimento di mediazione si desse comunque senza “precludere l’accesso alla giustizia”. Dunque, la legge delega voleva sia che il procedimento di mediazione non durasse più di quattro mesi, sia che il procedimento di mediazione non precludesse l’accesso alla giustizia. L’argomento della brevità del termine non può quindi essere utilizzato per escludere l’eccesso di delega, poiché, al contrario, il d.lgs. 28/10, mantenendo il termine già fissato nella lettera q) dell’art. 60 della l. 69/09, non ha però rispettato la medesima disposizione di legge nella parte in cui escludeva che il procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda, ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso al giudice. Nel rispetto dell’art. 60 della legge delega 69/09, l’obbligatorietà del procedimento di mediazione in tutte le ipotesi dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 non poteva dunque darsi. L’art. 5 del d.lgs. 28/10, in contrasto con l’art. 60 della l. 69/09, è pertanto incostituzionale per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. 2. Violazione degli artt. 24, 76 e 77 Cost. Il d.lgs. 28/10, all’art. 16 e nell’intero capo terzo intitolato “organismi di mediazione”, disattende palesemente la previsione della delega. Non vi è, infatti, traccia, di qualsivoglia criterio o parametro volto a selezionare gli organismi deputati alla mediazione in base a criteri di professionalità ed indipendenza. L’art. 16, infatti, si limita a stabilire che qualunque ente pubblico o privato che dia garanzie di serietà ed efficienza sia abilitato a costituire un organismo di mediazione. Con ciò disattendendo la previsione della delega ove circoscrive lo svolgimento dell’attività di mediazione esclusivamente in capo ad organismi professionali ed indipendenti e dunque attuando, al di là delle previsioni della stessa legge delega, una sorta di liberalizzazione nella costituzione e abilitazione degli organismi di mediazione. Entrambe le previsioni del d.lgs. 28/10, tanto l’art. 5 quanto l’art. 16, si pongono, pertanto, in aperto contrasto con le previsioni della legge delega. Quando invece, alla stregua dell’univoco orientamento della giurisprudenza costituzionale, “il potere di riempimento dai legislatore delegato, per quanto ampio possa essere, non può mai assurgere a principio o a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega” (Corte Costituzionale 12 ottobre 2007 n. 340). Nel caso della mediaconciliazione, utilizzando i parametri di controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante univocamente indicati dalla stessa giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. 44/2008, 71/08, 98/08, 230/10) emerge, infatti, l’incoerenza delle previsioni degli artt. 5 e 16 del d.lgs. 28/10 con la previsione dell’art. 60 l. 69/09. Ad avviso della giurisprudenza costituzionale il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega ed i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata. Orbene la previsione di cui all’art. 60 della l. 69/09, in aderenza agli impulsi dell’ordinamento comunitario ed in particolare alle previsioni della direttive 2008/52/CE, era orientata a garantire l’introduzione di sistemi alternativi e celeri di tutela delle posizioni giuridiche integranti “diritti disponibili” nonché la “qualità della mediazione” attraverso l’individuazione di organismi professionali ed indipendenti. Tutto ciò è ben lungi dall’essere realizzato ove si consideri la portata ed il tenore di previsioni, qual è quella dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 volta ad appesantire il procedimento di tutela delle posizioni dei singoli, attraverso l’introduzione obbligatoria di un procedimento non alternativo e facoltativo, ma obbligatorio e propedeutico all’accesso alla giustizia; nonché quella dell’art. 16 del medesimo decreto volta ad escludere dai criteri di selezione degli organismi di mediazione qualsivoglia parametro di “professionalità” ed “indipendenza”, quali parametri invero indicati dalla legge delega. L’effetto di entrambe le previsioni è la violazione della delega e lo snaturamento della funzione che il legislatore delegante aveva attribuito al procedimento di mediazione ed agli organismi professionali ed indipendenti deputati alla mediazione. Tutto ciò in palese violazione dei principi costituzionali che sorreggono la disciplina della legislazione delegata ed ancor più, sul piano sostanziale, la violazione degli artt. 76 e 77 e del principio del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione. 3. Violazione dell’art. 24 Cost. Si deve prendere atto che la mediazione di cui al d.lgs. 28/10 ha un costo, e lo ha anche nelle ipotesi di mediazione obbligatoria, visto che lo stesso art. 16, 40 comma del d.m. 10 ottobre 2010 n. 180 espressamente prevede che detto costo “deve essere ridotto di un terzo nelle materie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs.”. Si eccepisce, al riguardo, che la mediazione può essere obbligatoria, oppure onerosa, ma non le due cose insieme, poiché se la mediazione, come nel nostro caso, è tanto obbligatoria quanto onerosa, allora è incostituzionale. Sembra evidente, infatti, che il legislatore possa prevedere la mediazione come scelta libera e cosciente della parte, e in questi casi, quindi, anche prevedere che, chi la scelga, debba pagare il servizio; oppure il legislatore può subordinare l’esercizio della funzione giurisdizionale ad un previo adempimento, se questo è razionale e funzionale ad un miglioramento del servizio giustizia, ed in questo senso, come è avvenuto con l’art. 410 c.p.c., può anche prevedere un tentativo obbligatorio di conciliazione, ma senza costi. Se viceversa il tentativo obbligatorio di conciliazione ha un costo, e questo costo non è meramente simbolico, come avviene con l’art. 16 d.m. 180/10, allora, nella sostanza, il sistema subordina l’esercizio della funzione giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro. Il Governo, quindi, non si è limitato ad imporre una condizione di procedibilità che non era stata consentita, ma ha anche stabilito che i relativi costi dovessero cedere (quanto meno in via di anticipazione) a carico del cittadino, il quale vedrà così gravemente ostacolato quell’accesso alla Giustizia che la Costituzione garantisce a tutti. Chi di noi, al cospetto di una vertenza di entità economica modesta, non sarà costretto a rinunziarvi, per evitare di dover anticipare, nell’ordine: la indennità dovuta al conciliatore; il compenso all’ausiliare tecnico di quest’ultimo, se necessario; il contributo unificato. E poiché il nostro sistema non può subordinare l’accesso al giudice al pagamento di una somma di denaro, la media-conciliazione è in contrasto con i nostri valori costituzionali, e in violazione dell’ art. 24 Cost. Ciò è affermato anche alla luce degli orientamenti che la Corte costituzionale ha già avuto su questi temi. Sostanzialmente, il legislatore può pretendere versamenti per la funzione giurisdizionale civile solo se questi sono riconducibili a tributi giudiziari o a cauzioni volti a garantire l’adempimento dell’obbligazione dedotta in giudizio. In tutti gli altri casi, e fin da Corte costituzionale 29 novembre 1960 n. 67, lo Stato non può pretendere versamento di somme per adempiere al suo primo e fondamentale dovere di rendere giustizia. E l’imposizione del pagamento di una somma di denaro per l’esercizio di un diritto in sede giurisdizionale, quale oggi si realizza con la media-conciliazione in forza del combinato disposto dell’art. 5 d.lgs. 28/10 e art. 16 d.m. 180/10, si pone pertanto in contrasto con tutti i parametri di costituzionalità per come già definitivi in precedenti decisioni dalla Corte costituzionale, in quanto: a) si tratta di un esborso che non può essere ricondotto né al tributo giudiziario, né alla cauzione; b) si tratta di un esborso che non può considerarsi di modestissima, e nemmeno di modesta, entità; e) si tratta di un esborso che non va allo Stato, bensì ad un organismo, che potrebbe addirittura avere natura privata; d) e si tratta infine di un esborso che nemmeno può considerarsi “razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione”, poiché questi esborsi, di nuovo, sono da rinvenire solo nelle cauzioni e nei tributi giudiziari, non in altre cause di pagamento, e perché un esborso che non va allo Stato ma ad un organismo, anche di natura privata, non può mai avere queste caratteristiche. 4. Violazione art. 24 Cost. (Segue) Il legislatore delegante nulla aveva detto circa la necessità di una difesa tecnica nel corso del procedimento di mediazione; tuttavia, aveva avuto cura di evitare che il suo svolgimento potesse avere ripercussioni di sorta sulla decisione di merito del processo: nella legge di delega, il rifiuto della proposta formulata dal mediatore, e poi ritenuta equa dal Giudice, poteva influire sul governo delle spese, ma non mai sull’esito della lite. Nel fare uso del potere delegatogli, invece, il Governo, all’art. 8 del decreto legislativo 28/20 10, ha introdotto la previsione secondo cui dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio, ai sensi dell’art. 116 secondo comma del codice di procedura civile. In buona sostanza, una scelta che la parte potrà fare senza l’ausilio di un difensore – partecipare oppure no al procedimento di conciliazione – potrà condizionare in misura determinante l’esito del successivo processo; è noto, infatti, che il comportamento processuale o extraprocessuale delle parti può costituire, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite, ma anche unica e sufficiente prova idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito (così, tra le tante, Cass. 20 giugno 2007 n. 14748). Ne risulta evidente la violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, diritto che, come è noto, è la potestà effettiva della assistenza tecnica e professionale in qualsiasi fase del processo e quindi anche in quelle fasi prodromiche dal cui svolgimento è possibile desumere argomenti di prova, nonché l’eccesso di delega ex art. 76 Cost. avendo il legislatore delegato introdotto una possibilità di acquisire elementi di prova pur in assenza di difesa tecnica che il Delegante non aveva permesso mai. La mancata previsione della obbligatorietà della presenza dei difensori rileva anche sotto un diverso – e forse addirittura più pregnante – profilo. Quell’assistenza tecnica, quale che sia il valore della controversia, non è obbligatoria, ma non è neppure vietata: è facoltativa. Il che sta a significare che, chi è in grado di pagarseli, potrà farsi rappresentare da fior di avvocati, consulenti di parte esperti, professionisti di grido, e chi è povero no: dovrà arrangiarsi da solo, perché, non essendo obbligatoria la presenza di un avvocato, non sarà possibile ricorrere al patrocinio a spese dello Stato. Una anziana pensionata ultraottantenne, e munita del diploma di licenza elementare, se non sarà in grado di anticipare (oltre a quelli per il mediatore) i compensi per un avvocato, potrà trovarsi di fronte un battaglione di agguerriti specialisti, ma dovrà discutere da sola una proposta di conciliazione in una controversia avente ad oggetto (citiamo a mò di esempio) i tango-bond, o un altro sofisticato prodotto finanziario. 5. Violazione degli artt. 24, 76 e 77 Cost. Un forte contrasto del d.lgs. 28/10 con la legge delega si ha per ciò che riguar¬da i riflessi del diniego all’accoglimento della proposta del mediatore, sul¬l’iter del successivo giudizio e segnatamente sulla disciplina delle spese di lite. Il fatto che alla parte vincitrice del giudizio che non abbia accettato una proposta conciliativa che sia venuta a coincidere con il contenuto della decisione giudiziaria, debbano essere accollate le spese di lite proprie e della controparte, oltre al pagamento di un impor¬to pari al contributo unificato e alle spese di mediazione, costituisce infat¬ti un evidente deterrente “forzato” dal ricorrere alla tutela giudiziaria ed accettare l’esito della mediazione. Ciò in quanto di fronte alla proposta del mediatore, la parte quasi sicuramente preferirà non rischiare, finendo per accettare ob torto collo la soluzione stragiudiziale segnalatagli, anche se non ne è convinta appieno ed anche se può ritenerla ingiusta, piuttosto che ricorrere alla tutela giudiziaria che avrebbe potuto offrirgli un risulta¬to anche migliore. È questo il punto su cui si giocano ulteriori dubbi di costituzionalità per ecces¬so di delega con riferimento alla già riferita lett. a) dell’art. 60 della l. n. 69 del 2009, che aveva posto come preciso criterio direttivo quello per cui l’attuazione della mediazione non dovesse in alcun caso precludere il ricor¬so alla tutela giudiziaria. Preclusione che invece può aversi nel caso della proposta conciliativa, che sfacciatamente dissuada psicologicamente la parte dal ricorso al giudizio al quale ha diritto e che potrebbe garantirgli anche un migliore risultato. Si noti che la parte potrà trovarsi di fronte anche a proposte che a causa di una possibile impreparazione tecnica del mediatore potranno rivelarsi erronee o squilibrate, anche inconsapevolmente, a favore di uno dei soggetti della lite. Eppure, pur nella probabile infondatezza di tali proposte, la parte di fronte allo spettro delle pesanti conseguenze sulle spese, può precludersi il ricorso a quella che è l’unica strada naturale e garantistica per la composizione delle liti, data appunto dalla tutela giuri¬sdizionale. 6. Violazione dell’art. 3 Cost. La media-conciliazione rompe altresì il trattamento paritario nel processo tra attore e convenuto. Ciò già avviene con il d.lgs. 28/10, che prevede la condizione di procedibilità ex art. 5 per la domanda principale e non per la domanda riconvenzionale, ma oggi, più gravemente, avviene con l’art. 16 d.m. 180/10, concernente i criteri di determinazione delle indennità. Tale disposizione, infatti, divide le indennità del procedimento di mediazione tra “spese di avvio del procedimento” e “spese di mediazione”. Le “spese di avvio del procedimento” sono dovute da “ciascuna parte” ma sono versate “dall’istante al momento del deposito della domanda” (2° comma). Parimenti “le spese di mediazione indicate sono dovute in solido da ciascuna parte che ha aderito al procedimento”. Dunque, il decreto ministeriale espressamente prevede che la parte convenuta possa non aderire al procedimento. Cosicché, ai sensi dell’art. 3 Cost.: a) o si ritiene che anche l’attore possa non aderire al procedimento, e quindi possa versare la sola spesa di avvio del procedimento ai fui dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 con contestuale dichiarazione di non voler avvalersi del servizio; b) oppure il sistema è in violazione del principio d’eguaglianza, consentendo solo alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non alla parte attrice, che si vedrebbe ob torto collo obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in giudizio un suo diritto. L’istituto della media-conciliazione di cui all’art. 5 del d.lgs. 28/10, in combinato disposto con l’art. 16 d.m. 180/10, in questi termini, non viola così solo l’art. 24 Cost. (per essere, al tempo stesso, obbligatoria e onerosa), ma viola anche l’art. 3 Cost., perché pone su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice rispetto a quella convenuta. Né, contro questo argomento, si può sostenere che la diversità di trattamento dipende dalla diversità delle pretese, perché è l’attore che vuoi adire il giudice, non il convenuto. Un rilievo del genere può esser fatto solo da chi veda nell’attore un rompiscatole da arginare e non la parte che ha subito un torto e chiede giustizia. Adire il giudice è un diritto costituzionale, e chi intende farlo non deve subire pregiudizi rispetto alle altre parti processuali, che possono essere proprio quelle che hanno causato l’insorgere della lite per una violazione di legge. Altrimenti il sistema, oltre ad infrangere il trattamento paritario delle parti in giudizio, rischia altresì di compromettere seriamente l’elementare dovere del rispetto delle obbligazioni, con gravi ripercussioni non solo sul diritto, ma anche sull’economia. 7. Violazione degli artt. 24, 76 e 77 Cost. Un settimo aspetto di incostituzionalità attiene all’organizzazione interna degli organismi di conciliazione, anche per come definiti con l’art. 4 del d.m. 180/10. Ed infatti, nel momento in cui la procedura di mediazione è resa obbligatoria alfine di far valere in giudizio un diritto, e nel momento in cui le attività del mediatore interferiscono con l’esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto i verbali di conciliazioni costituiscono titolo esecutivo (art. 12, d.lgs. 28/10), le proposte di conciliazione hanno conseguenze sulla liquidazione delle spese del giudizio (art. 13, d.lgs. 28/10), nonché la mancata partecipazione al procedimento di mediazione può rilevare ex art. 116, 2° comma c.p.c. (art. 8, d.lgs. 28/10), va da sé che il procedimento ha funzione pubblica, e deve pertanto rispondere ai requisiti di buon andamento e di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., soprattutto quando l’organismo è ente pubblico. Ora, niente di questo si trova nell’art. 4 del d.m. 180/10, che usa talune espressione elastiche, e fissa blandi criteri di professionalità dei mediatori, ma niente più, senza prescrivere come doverose le condizioni minime di trasparenza, eguaglianza e imparzialità dovute all’esercizio di una funzione pubblica. In particolare il decreto ministeriale doveva prevedere criteri oggettivi circa l’assegnazione delle pratiche fra i vari mediatori dell’organismo, nonché criteri oggettivi circa il reclutamento degli aspiranti mediatori presso gli organismi costituiti da enti pubblici. Soprattutto, sotto il primo aspetto, l’assegnazione della pratica al singolo mediatore all’interno dell’organismo andava fissata con criteri oggettivi, analoghi, seppur in forma semplificata, a quelli che sussistono nei tribunali con il sistema c.d. tabellare, visto che, come detto, l’attività del mediatore interferisce con la giurisdizione. Il dm. 180/10 è rimasto viceversa silente sul punto, lasciando così la questione alla discrezionalità dell’organismo, che la regolerà in base al proprio statuto. In questo modo si potranno avere statuti che prevedranno l’assegnazione delle pratiche su designazione discrezionale del presidente, oppure di un garante, singolo o collegiale, o di altro soggetto, all’uopo istituito. L’art. 5 d.lgs. 28/10, in combinato disposto con l’art. 4 del d.m. 180/10, si pone pertanto in contrasto con l’art. 97 Cost., visto che l’assenza di un meccanismo oggettivo e predeterminato per l’assegnazione delle pratiche rischia di compromettere l’indipendenza e la terzietà del mediatore, attribuendo un potere gestionale inammissibile all’organismo. È la violazione dell’art. 97 Cost. si evidenzia come fondata ove solo si considera che l’attività del mediatore interferisce come detto con quella giurisdizionale, e quindi ha la necessità di essere esercitata alla luce di detti criteri di trasparenza, indipendenza e imparzialità. Data: 17/05/2011 Fonte: OUA
Dal giornale: ItaliaOggi del 5/12/2009, pag. 9:
Professioni senza albo, nasce UNIPROF. Prima missione: mercoledì al CNEL ottenere il bollino blu come organizzazione rappresentativa
Oltre 40mila iscritti nella neonata associazione della CNA. Professioni senza albo, nasce UNIPROF. Oltre 40mila iscritti nella neonata associazione della Cna, di Roberto Miliacca
Nasce Uniprof, nuova associazione dei professionisti non iscritti agli ordini associata alla CNA. L’unione, ai cui vertice ci sono Giorgio Berloffa, presidente, e Sergio Gambini, segretario, parte con una dote consistente di professionisti:
più di 40.000 iscritti (21 mila associati nella «vecchia» Assoprofessioni, che rappresenta 34 associazioni professionali, 9 mila associati da Cna-Inproprio, cui si aggiungono altri 10 mila iscritti costituiti da imprese individuali caratterizzate da un elevato livello di professionalità). L’organizzazione, che da ieri è ufficilmente confluita, dopo un anno di convivenza, nella Confederazione nazionale delle piccole e medie imprese e dell’artigianato guidata da Ivan MALAVASI e Sergio SILVESTRINI, “è l’unica centrale italiana delle professioni non regolamentate ammessa nel CEPLIS (Consiglio Europeo delle Professioni Liberali”. L’altra organizzazione di categoria, cioè il COLAP, non ha avuto questo riconoscimento. La nascita di UNIPROF cade nel pieno del dibattito sulla riforma delle professioni, che si trascina da anni nelle commissioni parlamentari (peraltro proprio Gambini, già parlamentare del centrosinistra nelle passate legislature, aveva presentato un progetto di legge per dare una regolamentazione alle associazioni professionali non regolamentate). A normativa invariata, però, un’accelerazione in corso c’è stata. Mercoledì prossimo, infatti, al CNEL, la 2/da commissione per le politiche del lavoro e dei settori produttivi si riunirà in sede deliberante, su mandato dell’assemblea, per esprimere la valutazione prevista dal D.Lgs. 206 del 9-11-2007, ovvero dal decreto sulle qualifiche professionali varato in attuazione di una Direttiva comunitaria, la 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. In altre parole, il CNEL avvia l’iter per dare il “BOLLINO BLU” alle “associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale”. Le associazioni selezionate dal CNEL, verranno poi individuate con decreto del ministero della giustizia di concerto con il ministero per le politiche europee ed il ministero competente per materia.
Il momento è caldo, e le organizzazioni della piccola e media impresa hanno capito che bisogna intercettare questo mondo, “cosiddetto delle partite IVA”, che negli anni ha investito sulle proprie competenze e sul proprio sapere, operando come imprenditori di se stessi. Uno dei primi temi che UNIPROF si propone di affrontare. è quello del recipimento della “Direttiva servizi, o Bolkestein”, che aprirà il mercato italiano dei servizi professionali agli operatori comunitari. “Il paradosso è che il nostro esperto in sicurezza informatica, il nostro chinesiologo (colui che studia il movimento umano in tutte le sue forme), o il nostro organizzatore congressuale”, spiega Gambini, “affronteranno la nuova competizione senza potere fornire al mercato le informazioni, i riferimenti, le garanzie dei professionisti provenienti da altri paesi della Comunità”. CNA e ASSOPROFESSIONI hanno iniziato a collaborare, sottoscrivendo un patto di affiliazione un anno fa, con l’obiettivo di costituire un grande polo di rappresentanza, //che consentisse a questo mondo di cominciare a fare sentire la sua voce//, spiega una nota. Tra le cose già fatte, sono state elaborate e presentate due bozze di disegni di legge, uno sulla regolamentazione delle professioni, l’altro sulla previdenza degli esercenti professioni non regolamentate. Il primo punta a separare l’iter legislativo della riforma delle professioni ordinistiche dalle non regolamentate; il secondo, invece, a istituire una gestione specificamente dedicata ai professionisti all’interno della gestione separata INPS, «per superare la confusione tra posizioni lavorative radicalmente diverse che oggi vi convivono (parasubordinati, pensionati in attività, professionisti )».
Istituto UNI, dal sito ufficiale http://www.uni.com:
Che cos’è una norma? Semplicemente un documento che dice “come fare bene le cose”, garantendo sicurezza, rispetto per l’ambiente e prestazioni certe. Secondo la Direttiva Europea 98/34/CE del 22 giugno 1998: “norma” è la specifica tecnica approvata da un organismo riconosciuto a svolgere attività normativa per applicazione ripetuta o continua, la cui osservanza non sia obbligatoria e che appartenga ad una delle seguenti categorie:
-norma internazionale (ISO)
-norma europea (EN)
-norma nazionale (UNI).
Le norme, quindi, sono documenti che definiscono le caratteristiche (dimensionali, prestazionali, ambientali, di qualità, di sicurezza, di organizzazione ecc.) di un prodotto, processo o servizio, secondo lo stato dell’arte e sono il risultato del lavoro di decine di migliaia di esperti in Italia e nel mondo. Le caratteristiche peculiari delle norme tecniche sono:
-consensualità: deve essere approvata con il consenso di coloro che hanno partecipato ai lavori;
-democraticità: tutte le parti economico/sociali interessate possono partecipare ai lavori e, soprattutto, chiunque è messo in grado di formulare osservazioni nell’iter che precede l’approvazione finale;
-trasparenza: UNI segnala le tappe fondamentali dell’iter di approvazione di un progetto di norma, tenendo il progetto stesso a disposizione degli interessati;
-volontarietà: le norme sono un riferimento che le parti interessate si impongono spontaneamente.
COME NASCE UNA NORMA TECNICA
Messa allo studio
Stesura del progetto
Inchiesta pubblica
Pubblicazione
Semplificando numerosi passaggi, l’iter che porta alla nascita di una norma si articola in diverse fasi: la messa allo studio, la stesura del documento, l’inchiesta pubblica, l’approvazione da parte della Commissione Centrale Tecnica e la pubblicazione.
I rappresentanti delle parti economico/sociali interessate possono prendere attivamente parte all’iter di elaborazione di una norma, partecipando ai lavori dello specifico organo tecnico (gruppo di lavoro, sottocommissione o commissione tecnica) o limitandosi ad inviare all’ente di normazione i propri commenti in fase di inchiesta pubblica.
PERCHE’ PARTECIPARE?
Partecipare o no? Secondo una ricerca DIN, il 50% delle imprese ritiene che, partecipando ai lavori di normazione, sia riuscita ad avere un’influenza grande/molto grande nella definizione delle norme e il 47% delle aziende partecipanti al processo normativo è riuscito ad evitare l’inserimento di argomenti problematici o è riuscita ad inserire argomenti desiderati. Da una ricerca Acqua Partners è emerso un elevato consenso – degli oltre 300 manager italiani intervistati – sul fatto che partecipando all’attività di normazione è possibile scambiare informazioni, studi, stimoli che facilitano l’innovazione e che è possibile avere un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti. Un buon livello di condivisione ha raggiunto anche l’affermazione che partecipando all’attività di normazione è possibile diminuire il costo delle attività di ricerca e sviluppo. In sintesi, i motivi principali che spingono le organizzazioni a contribuire all’attività di normazione sono:
-influire sulla definizione dei contenuti delle norme e non subire requisiti stabiliti dai concorrenti,
-essere informati sui futuri sviluppi normativi, con tempi e costi di adattamento ridotti e, quindi, con vantaggi competitivi sulla concorrenza,
-essere aggiornati sullo “stato dell’arte” dei prodotti/servizi/ processi relativi alla propria attività, ridurre i costi della ricerca ed i rischi ad essa connessi, confrontando con gli altri partecipanti il proprio know-how.
Sono proprio gli esperti delle imprese, “i professionisti”, i rappresentanti della pubblica amministrazione e dei consumatori che possono fare le norme: partecipando all’attività di normazione hanno la possibilità di fare le regole del proprio mercato, anziché di subirle!
LA NORMAZIONE OGGI
L’attività di normazione consiste nell’elaborare – attraverso la partecipazione volontaria, la consensualità e procedure di trasparenza – documenti tecnici che, pur essendo di applicazione volontaria, forniscano riferimenti certi agli operatori e possano pertanto avere una chiara rilevanza contrattuale. A volte l’argomento trattato dalle norme ha un impatto così determinante sulla sicurezza del lavoratore, del cittadino o dell’ambiente che le Pubbliche Amministrazioni fanno riferimento ad esse richiamandole nei documenti legislativi e trasformandole, quindi, in documenti cogenti. in ogni caso, mano a mano che si diffonde l’uso delle norme come strumenti contrattuali e che, di conseguenza, diventa sempre più vasto il riconoscimento della loro indispensabilità, la loro osservanza diventa quasi “imposta” dal mercato. È proprio la progressiva trasformazione dei mercati da locali, nazionali, ad europei ed internazionali che ha portato ad una parallela evoluzione della normativa da nazionale a sovranazionale, con importanti riconoscimenti anche dal WTO (World Trade Organization). Da qui la vasta partecipazione di Paesi, oltre 160, alle attività dell’ISO e l’importanza che le sue norme, pur essendo di libero recepimento da parte degli organismi di normazione suoi membri, rivestono sui mercati mondiali. A differenza dell’ISO il mondo europeo delle normazione è strettamente interrelato con un corpo sempre più completo di direttive dell’Unione Europea e ha dovuto, quindi, darsi regole interne più rigide: gli organismi di normazione membri del CEN sono infatti obbligati a recepire le norme europee e a ritirare le proprie, se contrastanti. In tale contesto è evidente che l’attività normativa nazionale si sta via via limitando a temi più specificatamente locali o non ancora prioritari per studi sovranazionali e sta sempre più organizzando le proprie risorse per contribuire alle attività europee ed internazionali. Dal principio del secolo ad oggi, l’evoluzione della normazione non si è solo concretizzata in un allargamento di orizzonti geografici: la normazione ha infatti subito anche una sensibile evoluzione concettuale, che l’ha portata ad abbracciare significati sempre più ampi. Oggi l’attività di normazione ha per oggetto anche la definizione dei processi, dei servizi e dei livelli di prestazione, intervenendo così in tutte le fasi di vita del prodotto e nelle attività di servizio. Non solo: oggi la normazione si occupa anche di definire gli aspetti di sicurezza, di organizzazione aziendale (UNI EN ISO 9000) e di protezione ambientale (UNI EN ISO 14000), così da tutelare le persone, le imprese e l’ambiente.
LA CERTIFICAZIONE
La certificazione, Il marchio di conformità UNI, I prodotti a marchio UNI, Il Keymark.
La certificazione è una procedura con cui una terza parte indipendente dà assicurazione scritta che un prodotto, un servizio, un processo o una persona è conforme ai requisiti specificati. La certificazione di prodotto/servizio è una forma di “assicurazione diretta”, con cui si accerta la rispondenza di un prodotto tangibile o intangibile ai requisiti applicabili. La certificazione di sistema, assicura la capacità di unA organizzazione (produttrice di beni o erogatrice di servizi) di strutturarsi e gestire le proprie risorse ed i propri processi in modo da riconoscere e soddisfare i bisogni dei clienti, impegnandosi al miglioramento continuo. È una forma di “assicurazione indiretta” e riguarda in particolare i sistemi di gestione per la qualità (ISO 9001); per l’ambiente (ISO 14001); per la sicurezza delle informazioni (ISO 27001); per la sicurezza alimentare (ISO 22000). La certificazione del personale assicura che determinate figure professionali possiedano, mantengano e migliorino nel tempo la necessaria competenza, intesa come l’insieme delle conoscenze, delle abilità e delle doti richieste per i compiti assegnati. Ha particolare valore per la corretta realizzazione di attività di particolare criticità, per le quali la sola disponibilità di risorse strumentali e procedure operative può non essere sufficiente. La credibilità delle certificazioni dipende dalle organizzazioni che le emettono: la qualificazione degli organismi di certificazione viene indicata con il termine “accreditamento”. Si tratta di procedure eseguite da Enti di parte terza (Enti di accreditamento: in Italia ACCREDIA) che si assumono l’onere di accertare l’oggettiva aderenza da parte degli organismi di certificazione alle prescrizioni indicate dalle diverse norme che ne regolano l’attività.
La definizione dei criteri sulla base dei quali viene condotta questa verifica non poteva essere lasciata alla discrezione dei singoli stati nazionali, proprio per le dimensioni del mercato internazionale e per il rispetto del principio della libera circolazione delle persone e delle merci. In Italia, in Europa e nel mondo la serie di norme ISO/IEC 17000 rappresenta il quadro di riferimento normativo imprescindibile per gli Enti di accreditamento, per gli organismi di certificazione di prodotti, di sistemi di gestione, del personale, di ispezione e per i laboratori di prova e taratura, poiché esplicitano i requisiti di professionalità e di competenza che gli organismi e i laboratori sopra citati devono soddisfare.
CHI SIAMO:
UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione) è un’associazione privata senza fine di lucro fondata nel 1921 e riconosciuta dallo Stato e dall’Unione Europea, che studia, elabora, approva e pubblica le norme tecniche volontarie – le cosiddette “norme UNI” – in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario (tranne in quelli elettrico ed elettrotecnico). I soci UNI sono imprese, professionisti, associazioni, enti pubblici, centri di ricerca e istituti scolastici. UNI rappresenta l’Italia presso le organizzazioni di normazione europea (CEN) e mondiale (ISO).
LA MISSIONE
Scopo dell’Ente è l’elaborazione di norme tecniche che contribuiscano al miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia del sistema economico-sociale italiano e che siano strumenti di supporto all’innovazione tecnologica, alla competitività, alla promozione del commercio, alla protezione dei consumatori, alla tutela dell’ambiente, alla qualità dei prodotti e dei processi.
LE NORME
Le norme UNI sono documenti che definiscono lo stato dell’arte di prodotti, processi e servizi, specificano cioè “come fare bene le cose” garantendo sicurezza, rispetto per l’ambiente e prestazioni certe. Sono documenti elaborati consensualmente dai rappresentanti di tutte le parti interessate mediante un processo di autoregolamentazione trasparente e democratico, e – pur essendo di applicazione volontaria – forniscono agli operatori riferimenti certi, anche di rilevanza contrattuale. Le norme tecniche, quindi, sono soluzioni: sono un capitale di conoscenza di valore inestimabile, a disposizione dei professionisti e delle imprese di ogni dimensione, per ottenere forniture di qualità, contenere i costi, rendere più efficiente la propria organizzazione. E ancora, migliorare ed innovare i prodotti, avere un rapporto contrattuale chiaro con i fornitori e i clienti.
Professioni non regolamentate e sicurezza sul lavoro: due appuntamenti a SiACeN 2011, Martedì 17-5-2011, siacen_2011Nell’ambito della manifestazione SiACeN 2011, il 1° Congresso Nazionale sui Sistemi di Gestione, Accreditamenti, Certificazioni, Notifiche organizzato da ANGQ e AICQ e che vede UNI tra i patrocinatori, segnaliamo due appuntamenti che si terranno entrambi il giorno 19 maggio. Rispondere alla domanda “qualifica o certificazione delle figure professionali non regolamentate? Una soluzione potrebbe non escludere l’altra” è l’obiettivo della plenaria “Qualifica/certificazione delle professioni non regolamentate”, in programma nella mattinata di giovedì 19 maggio. Da anni si dibatte sull’argomento e, forse, si sta intravedendo una soluzione definitiva che non può non tenere conto di quanto già fatto da diverse organizzazioni e delle indicazioni emergenti dal mondo della certificazione in ambito di mutuo riconoscimento europeo e mondiale (IPC). Un tema di grande interesse per migliaia di professionisti ed operatori (associazioni di categoria, organismi di certificazione, scuole di formazione, ecc.) che non mancherà di suscitare un’interessante dibattito. Il moderatore della plenaria sarà Ruggero Lensi, direttore Relazioni esterne, sviluppo e innovazione dell’UNI, che interverrà anche in qualità di relatore nel corso dell’incontro.
Armaghedòn, ovvero la battaglia finale anche per i PATROCINATORI STRAGIUDIZIALI Italiani (e non sia mai che finisca con gli spaghetti all’amatriciana).
Da LA REPUBBLICA.it Supplemento Affari e Finanza: Lun. 30-5-2011. Professionisti senza albo, battaglia finale in Parlamento, di Valentina CONTE
Hanno discusso, si sono divisi e poi ricomposti. Ora, per l’ultima battaglia, quella decisiva in Parlamento, si ripresentano uniti. «L’obiettivo comune è arrivare a regolamentare lo status di professionista», taglia corto Giuseppe Lupoi, presidente del COLAP, il coordinamento delle libere associazioni professionali. «Ma non chiamiamole professioni non regolamentate, si fa confusione. Sono professioni associative», puntualizza. Il motivo del contendere sono tutti quei lavoratori che svolgono un’attività professionale, ma che non appartengono ad alcun albo. I contendenti, ora alleati, sono le associazioni più importanti che li rappresentano: COLAP e ASSOPROFESSIONI. La novità è che presto anche questi professionisti potrebbero avere un riconoscimento ufficiale e dunque maggiori tutele sotto il profilo previdenziale e assistenziale. Niente a che vedere, però, con gli Ordini. «È una legge semplice, che attendiamo da tempo e che si può fare», osserva Lupoi. «E soprattutto che avrà un impatto importantissimo su molta gente». Almeno un milione e mezzo di lavoratori, secondo le ultime stime. I professionisti senza una casa operano in campi diversi, dalle scienze alla comunicazione d’impresa, dalla medicina non convenzionale ai servizi all’impresa, dalla sanità alla cura psichica. Si tratta di grafici, interpreti, tributaristi, osteopati, certificatori energetici, informatici, mediatori culturali, patrocinatori stragiudiziali, optometristi, designer, archeologi, traduttori e interpreti, fisioterapisti, statistici, consulenti familiari, sociologi. E tanti altri. L’iter legislativo sembra a buon punto. «Entro l’estate, la X Commissione attività produttive della Camera licenzierà il testo per la discussione in aula», anticipa Lupoi. Un testo apprezzato sia da COLAP che da ASSOPROFESSIONI. Un buon compromesso, ammettono. «C’erano sei proposte di legge diverse, siamo stati sollecitati a una posizione unitaria», racconta Giorgio Berloffa, presidente di ASSOPROFESSIONI. «Un accordo molto importante», sottolinea Lupoi. La divergenza permane su un unico punto: riconoscere queste professioni, ma come? Secondo il COLAP, regolamentando le associazioni che raggruppano in modo vario e anche frammentato questi professionisti a partire dal 2007, quando sono state introdotte per la prima volta nel nostro ordinamento. Regolamentando le professioni, per ASSOPROFESSIONI, attraverso la norma UNI. «La Commissione parlamentare ha mediato dicendo: noi riconosciamo entrambe le strade. Le associazioni, da una parte, che possono rilasciare gli attestati ai loro iscritti. Parallelamente, però, può operare anche l’UNI, l’ente normatore nazionale. In entrambi i casi vige l’assoluta volontarietà», spiega Lupoi. «Già una quindicina di associazioni ci hanno chiesto di essere definite da norme UNI. Abbiamo avviato i primi sei tavoli», racconta Berloffa, che con il CNA ha dato vita ad UNIPROF. «Alla norma si arriva dopo un confronto tra l’UNI e tutti gli stakeholders: associazioni dei consumatori, rappresentanti delle associazioni, professionisti concorrenti, ministeri competenti, l’ente certificatore e quello che dà la formazione: università, scuola privata o regione», prosegue Berloffa. «La norma UNI è indispensabile a definire cosa deve fare e saper fare il professionista, come, quale formazione deve avere, quale deve essere la sua deontologia. Poi il professionista che vuole può farsi anche certificare da un ente accreditato come Accredia (l’ente certificatore nazionale). Attualmente già 80.000 professionisti hanno richiesto questo tipo di documento. Il perché è facilmente immaginabile: il professionista certificato è più affidabile, conquista più clienti e aumenta il suo fatturato. Il consumatore, poi, ha la garanzia di trovarsi di fronte a un vero bioingegnere, a un osteopata preparato e aggiornato, a un tecnico di emodialisi che sa quel che fa». In pratica, a un professionista “doc”. «Le “professionalità certificate” aggiunge Federico Grazioli presidente di Accredia costituiscono un elemento cardine delle politiche per l’occupazione, in particolare in un sistema in cui reti sociali ed economiche acquisiscono valore strategico per sostenere le politiche per la crescita e la ripresa». «Dignità della professione e garanzia dell’utente, queste le esigenze», conferma Piero Torretta, presidente Uni. «E noi non facciamo altro che coglierle. E la certificazione, per chi la sceglie, deve essere fatta da un ente terzo e indipendente». «Io non credo all’accreditamento, non funziona», ribatte Lupoi. «L’Uni elabora le norme a partire dal contributo delle associazioni. E quindi dov’è il vantaggio? Le norme, poi, cristallizzano le situazioni professionali al momento in cui sono elaborate. Ma le materie cambiano velocemente. L’ente terzo non sa, perché non può sapere, cos’è successo negli anni in tutte le materie. A meno che glielo dica l’associazione. E allora può fare tutto l’associazione». Oggi COLAP e ASSOPROFESSIONI saranno, per la prima volta, ad un tavolo tecnico richiesto da ASSOPROFESSIONI presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Si parlerà di riconoscimento delle professioni, ma anche di welfare e fisco. «I commercialisti, che hanno un Ordine, versano il 1415% per la previdenza. I tributaristi il 27%, tanto per fare un esempio», dice Berloffa. «Se entrambi danno 100, il professionista associativo prende come pensione la metà dell’altro, se gli va bene», concorda Lupoi.
PENSIAMO A LAVORARE E NON HA GIUDICARE
PRESIDENTE LA SUA BATTAGLIA PER ADESSO CI VEDE VINCITORI MA NOI VOGLIAMO VINCERE LA GUERRA.
CORDIALI SALUTI
colleghi
è indetta per il 10 giugno prossimo ore 15 a Roma presso l’hotel western universo di via Principe Amedeo 5B l’assemblea generale dell’aneis, dove ci sarà ampio spazio per un confronto e un resoconto delle attività svolte durante l’anno, e soprattutto dove si parlerà di futuro, del nostro futuro, vi chiedo quindi di partecipare numerosi, e di inviare all’aneis o al sottoscritto una mail di conferma, questo per meglio organizzare la sala e l’intero evento.
luciano.dispendi@esissrl.com
vi aspettiamo numerosi.
Direttamente dall’autore, un’incredibile prova di onestà intellettuale, il testo della famosa ricerca della Commmissione avv. Daniele de Strobel (direttivo ANIA), editata con la emanazione della “Circolare ANIA n°20/1990 del 25-1-1990″:
ANIA Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici
RAPPRESENTANZA: 00116 ROMA VIA DELLA FREZZA 70, TELEFONO: 06-Ì2.27.I4I-2-Ì-4
TELEGRAFO: ASSICURO ROMA TELEX: 61 36.21 ANIASS TELEFAX: (06)2.21.US
SEDE: 10122 MILANO TELEGRAFO: ASSICURO MILANO PIAZZA S. BASILA.
I TELEX: SÌ.Ì2.IS ANIASS TELEFONO: (02) 7764.1 TELEFAX:(02)7t.09.70
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Commissione Legale, Circ. n. 20/1990 Leg. 2, Roma, 25 gennaio 1990
ALLE IMPRESE ASSOCIATE
AI COMPONENTI LA COMMISSIONE LEGALE
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pag. 1: ASS. DANNI – Ricorso da parte dei danneggiati a consulenti tecnici e operatori di agenzie di infortunistica per la definizione stragiudiziale dei sinistri – Ammissibilità – Poteri e diritti di detti soggetti nei confronti dell’assicuratore – Condizioni e presupposti.
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Per opportuna conoscenza, si trasmette in allegato copia del parere reso dalla Commissione legale sul quesito in oggetto, esaminato nella riunione del 6 dicembre 1989. Distinti saluti.
IL SEGRETARIO F. Nanni IL PRESIDENTE E. Dusi
allegato
COMMISSIONE LEGALE
ASS. DANNI Ricorso da parte dei danneggiati a consulenti tecnici
e operatori di agenzie di infortunistica per la definizione stragiudiziale dei sinistri–Ammissibilità-Poteri e diritti di detti soggetti nei confronti dell’assicuratore-Condizioni e presupposti.
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Relatore dott. de Strobel riunione 6 dicembre 1989
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E’ stato chiesto di precisare quale debba essere, da un punto di vista strettamente giuridico, l’atteggiamento degli assicuratori nei confronti dei consulenti di parte e degli operatori di agenzie di infortunistica che molto spesso si presentano presso gli uffici delle imprese per la liquidazione stragiudiziale dei sinistri su incarico dei danneggiati.
Il problema viene sollevato sia al fine di individuare in astratto le fattispecie in cui l’intervento dei soggetti di cui sopra deve ritenersi ammissibile per obiettive ragioni di competenza (distinguendo, in particolare, i casi in cui dovrebbe riconoscersi, viceversa, una esclusiva competenza dei legali), sia allo scopo di precisare i poteri e l’eventuale diritto all’onorario di questi stessi soggetti nei confronti dell’assicuratore, nonché i relativi presupposti e condizioni.
§§§§§§§§§§§§
I) Per affrontare correttamente la varia problematica sottoposta ad esame, appare opportuno definire in via preliminare la natura e la posizione che vengono ad assumere, nel generale sistema risarcitorio da fatto illecito, le spese che il danneggiato si trova sovente ad affrontare per procurarsi quella consulenza ed assistenza necessarie per realizzare la propria pretesa creditoria.
In proposito la Commissione -fermo quanto sarà detto più in dettaglio al successivo punto IV)- rileva subito che queste spese costituiscono, in via di principio, una delle componenti del danno emergente conseguenziale al fatto che ha determinato la responsabilità secondo i vari criteri a tal fine contemplati dall’ordinamento (dolo, colpa o connessione oggettiva).
pag. 2: L’eventuale diritto del consulente o del patrocinatore ad essere retribuito per l’attività svolta non si pone quindi, se
non in casi affatto particolari di cui si dirà meglio tra breve, direttamente nei confronti dell’autore del danno e del rispettivo assicuratore della responsabilità civile, ma sussiste solo nei ri-
guardi del proprio assistito. A quest’ultimo spetterà poi, a sua volta, il rimborso di dette spese, al pari di qualsiasi altro danno emergente subito in conseguenza del fatto illecito (quali, a puro titolo di esempio, le spese farmaceutiche ed ospedaliere, gli onorari dei medici, le spese di ripristino, le spettanze dei tecnici intervenuti per i danni subiti dalle cose, ecc.).
La natura delle spese in questione è altresì confermata dall’opinione assolutamente pacifica che esse rientrano, dal punto di vista assicurativo, nell’ambito del massimale garantito dalla polizza, a differenza di quanto è a dirsi, ad esempio, per le spese di resistenza, che sono attribuite, come è noto, alla provvista supplementare del quarto del massimale medesimo.
Solo in casi affatto particolari, come avvertito, e in considerazione del modo in cui si sono concretamente svolte le trattative per addivenire alla liquidazione del danno può, talvolta, configurarsi un obbligo diretto dell’assicuratore a corrispondere alcunché a detto titolo.
Ciò può accadere a seguito di volontaria assunzione di tale incombenza da parte dell’assicuratore, con emissione allora di quietanza separata, proprio come l’assicuratore stesso può, in ipotesi, farsi carico direttamente di altri pagamenti, quali, ad esempio, quelli relativi alle spettanze di meccanici e carrozzieri prassi per la quale, in passato, era stato addirittura stipulato un accordo con i concessionari di una nota casa automobilistica nazionale, al quale aveva aderito una cospicua parte del mercato assicurativo).
Ciò può avvenire, inoltre, in caso di soccombenza dell’assicuratore a seguito di azione diretta promossa nei suoi confronti dal danneggiato o di chiamata in garanzia da parte dell’assicurato e sempreché il patrocinatore sia stato dichiarato distrattario: il che, peraltro, presuppone che la vertenza sia stata trasferita in sede giudiziale, anche se non muta la natura sostanziale del debito di cui trattasi, che resta quella sopra chiarita di mera componente interna del più generale debito di responsabilità.
II) Ciò premesso, si -tratta ora di verificare se l’attività dei menzionati consulenti e procuratori, ove espletata solo in sede stragiudiziale al fine di pervenire a un bonario componimento della controversia, possa essere legittimamente svolta da soggetti non particolarmente qualificati sul piano professionale o se invece, interferendo detta attività nella sfera regolata dalle leggi speciali sulla professione forense, la stessa debba ritenersi consentita solo a chi sia a ciò regolarmente abilitato.
pag. 3: Come è noto, l’esercizio di una professione viene disciplinato dal legislatore solo quando la professione stessa integri gli estremi di un’attività di livello e di importanza tali da tro¬vare opportuna collocazione nel quadro delle categorie giuridiche di “pubblico” e di “amministrazione pubblica” (1).
Ed infatti, l’oggetto specifico della tutela approntata sul terreno penale dall’art. 348 c.p. -che reprime l’esercizio abusivo di una professione – è l’interesse concernente il normale funzionamento della Pubblica Amministrazione in senso lato, in quanto lo Stato si sia appunto riservato in via esclusiva il potere di abilitare i privati all’esercizio di determinate professioni particolarmente rilevanti e delicate, subordinandolo ad opportune cautele (2).
Ciò che appare confermato dal fatto che il reato di cui trattasi è previsto nel Titolo II del codice penale, testualmente rubricato “Dei delitti contro la Pubblica Amministrazione”, e fa immediatamente seguito a quello di usurpazione di funzioni pubbliche contemplato dall’art. 347 dello stesso codice.
Da quanto sopra discende che la violazione della norma penale ricorre unicamente quando l’operatore, non abilitato compia atti tipici della professione, in quanto solo il compimento abusivo di questi atti può costituire, appunto, un attentato alle prerogative della P.A..
Ciò posto, è chiaro che la disposizione di cui al citato art. 348 c.p. rappresenta una norma penale in bianco (3), in quanto presuppone l’esistenza di norme giuridiche speciali che prescrivano una particolare abilitazione per l’esercizio di talune professioni. Nel caso che qui interessa, le norme in questione sono quelle recate dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, e successive modificazioni, sull’esercizio della professione forense.
Orbene, dal testo di tale ultima legge si evince chiaramente che la materia soggetta a disciplina è quella e solo quella relativa alle funzioni degli avvocati e procuratori legali in sede giudiziale.
In proposito la dottrina ha osservato testualmente che “la pubblica e ufficiale investitura all’esercizio del patrocinio, con la formazione e la tenuta degli albi a ministero degli ordini professionali, rientra come parte integrante nella disciplina del processo”; e ancora che “la funzione è solo nel processo”, per cui “la consulenza e l’assistenza legale, strettamente pregiudiziali o stragiudiziali, esorbitano pienamente da questa inquadratura e devono ammettersi …come attività libere a tutti, suscettibili, dunque, di essere offerte o accettate o prestate senza che possa comunque farsi questione di usurpazioni di uffici o di funzioni” (4).
Alla luce di quanto sopra detto, gli atti tipici della professione forense, come tali inibiti ai soggetti non abilitati ai sensi delle leggi speciali, sono quelli giudiziali – e cioè gli
pag. 4: atti legali propri, che hanno luogo nel processo in senso stretto o che, anche se svolgentisi al di fuori di questo, sono però sottesi a spiegare nel processo stesso un’incidenza immediata e diretta, mentre non possono considerarsi tipici della professione in parola gli atti stragiudiziali, e cioè gli atti legali impropri di consulenza e di assistenza della più diversa natura, ma comunque non attinenti alla sfera processuale (5).
Questi ultimi possono pertanto essere compiuti anche da chi non sia in possesso del titolo di studio richiesto per l’esercizio della professione forense, ovvero, pur avendo conseguito tale titolo, non risulti però iscritto agli appositi albi o registri speciali. Parimenti non sono riservati ad avvocati e procuratori quegli atti che la legge consente alle parti di compiere direttamente, in proprio o a mezzo di un mandatario, quali, ad esempio, querele, trattative per conciliazioni, transazioni ecc. (6).
Naturalmente non è mancato chi si è sforzato di negare il fondamento di questa rigorosa ripartizione, nel tentativo di riservare esclusivamente ai soggetti abilitati all’esercizio della professione forense anche gli atti di natura stragiudiziale o legali impropri.
A tal fine alcuni hanno cercato di utilizzare una certa giurisprudenza della Suprema Corte in tema di liquidazione degli onorari professionali, giurisprudenza secondo la quale -ai fini, appunto, della predetta liquidazione- prestazioni giudiziali sono da considerarsi non soltanto quelle che consistono nel compimento di veri e propri atti processuali, ma anche quelle attività che si svolgono al di fuori del processo (7).
Muovendo dalla riferita giurisprudenza si è così sostenuto che anche gli atti stragiudiziali, pur essendo di per sé atipici, possono però rientrare tra i compiti propri della funzione professionale e andrebbero quindi riservati ai soli soggetti abilitati, in nome di una visione dell’attività forense globalmente intesa e immune da artificiose distinzioni al suo interno.
A siffatto genere di argomentazioni è agevole opporre peraltro, ed è stato infatti puntualmente opposto, che la giurisprudenza sulla legge professionale forense 13 giugno 1942, n.794, concernente “Onorari di avvocato e di procuratore per pre¬- stazioni giudiziali in materia civile”, da un lato, si è occupata, appunto, di tale ultima legge, riguardando quindi unicamente il profilo della liquidazione degli onorari professionali, e, dall’altro, ha equiparato atti giudiziali e stragiudiziali, ai fini della predetta liquidazione, solo quando questi ultimi risultino strettamente dipendenti da un mandato relativo alla difesa e rappresentanza in giudizio, di guisa che gli stessi possano conoiderarsi preordinati all’attuazione di attività propriamente processuali o a queste complementari.
pag.5: Sempre al fine di dilatare la sfera di applicazione del citato art. 348 c.p., fino a farvi ricomprendere il compimento da parte di soggetti non abilitati alla professione forense di atti meramente stragiudiziali, altri hanno cercato di far ricorso al controverso concetto di “reato eventualmente abituale” (8).
Si è così affermato che il reato di abusivo esercizio di una professione può, si, perfezionarsi anche con una singola azione, ma emerge molto più spesso da una certa continuità delle prestazioni professionali, vale a dire da una situazione inizialmente di equivoco e che progressivamente si fonde e sintetizza in una situazione univoca di illegittimità.
La tesi, alquanto ardita, è stata però respinta dalla giurispudenza (9), sul presupposto che la concezione del ed. reato eventualmente abituale può comportare, nella materia di cui trattasi, la punibilità per un solo reato (anziché per una pluralità di reati o per reato continuato) di una serie di atti di esercizio abusivo della professione, ognuno peraltro bastevole a costituire già di per sé reato, ma non può giammai significare che più atti consentiti possano concretare un illecito penale per il semplice fatto di essere stati ripetuti abitudinariamente.
Da ultimo, neppure sembra alla Commissione che utili spunti per un’estensione del tradizionale e rigoroso concetto di esercizio della professione forense agli atti stragiudiziali possano trarsi dalla legge 9 febbraio 1982, n. 31, concernente “Libera prestazione dei servizi da parte degli avvocati cittadini degli Stati membri della Comunità Europea”, il cui art. 2 menziona l’attività professionale dell’avvocato in sede giudiziale e stragiudiziale.
Ed infatti, dall’esame di detta legge -che, per quanto consta, non ha ancora formato oggetto di approfondimento da parte della dottrina e della giurisprudenza- non sembra assolutamente che si possano ricavare fondati argomenti per modificare la soluzione data al problema che ne occupa: vale a dire che, fermo restando che gli abilitati alla professione forense possono ovviamente porre in essere sia atti legali propri che impropri, riservati esclusivamente ai suddetti abilitati sono però solo gli atti legali propri svolgentisi nel processo.
III) Le conclusioni cui si è pervenuti in precedenza risultano confermate altresì dalla considerazione che il punto focale e terminale della attività dei consulenti e patrocinatori in discorso è rappresentato dal raggiungimento di un accordo amichevole di tipo transattivo.
Questo è, infatti, lo scopo a cui tendono e sono preordinate tutte le operazioni compiute dai predetti soggetti, talché, se l’obiettivo non viene poi materialmente raggiunto, cessa ogni loro interessamento diretto e la pratica viene ceduta a un legale
pag. 6: regolarmente abilitato a trattare la controversia davanti al giudice.
Non a caso l’esame della legittimità dell’intervento degli operatori del tipo considerato si è incentrata proprio su questo negozio terminale e le considerazioni effettuate su di esso sono risultate determinanti per assolvere questi stessi operatori dall’imputazione di esercizio abusivo della professione forense.
La corrente di pensiero che ha trovato accoglimento anche nella giurisprudenza della Suprema Corte è quella che considera la transazione come un negozio giuridico che si svolge del tutto al di fuori delle norme rigorose del diritto. Le parti, nel raggiungere l’accordo, non vanno a ricercare la corretta soluzione giuridica della controversia fra loro insorta e non concludono dando ragione all’una o all’altra, ma, nell’intento di porre termine a una lite già iniziata o allo scopo di prevenirne una futura, si fanno reciproche concessioni e pongono in tal modo fine a ogni motivo del contendere (art. 1965 c.c.).
Appunto in relazione a questo preciso disegno, il legislatore richiede come unica condizione che gli autori della transazione abbiano la piena capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della contesa (art. 1966 c.c.).
Inoltre, l’art. 1969 c.c. dichiara non annullabile la transazione per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia fra le parti.
Sono quindi valutazioni di natura non tanto giuridica quanto piuttosto essenzialmente pratica quelle che sono alla base del negozio in discorso. Per questo la facoltà di transigere è attribuita dalla legge direttamente alle parti, alle quali nulla vieta poi, attraverso l’istituto del mandato con rappresentanza, di attribuire liberamente tale potere ad altra persona di loro fiducia, non necessariamente compresa, per le ragioni dette, tra gli abilitati all’esercizio della professione forense.
Pretendere che la transazione, nel campo qui considerato, possa essere conclusa avendo come mandatario solo un legale iscritto all’albo o nei registri speciali vorrebbe dire, dunque, assoggettare a limitazioni tanto stringenti quanto giuridicamente immotivate la naturale libertà delle parti. E’ appena il caso di rilevare, inoltre, come siffatte limitazioni, una volta affermate, non potrebbero che riguardare tutti indistintamente gli interessati, e quindi non soltanto il danneggiato, ma lo stesso assicuratore del responsabile.
La rigorosa applicazione del principio di cui sopra vieterebbe, in altre parole, anche agli assicuratori di trattare la liquidazione dei danni attraverso propri dipendenti a ciò ordinariamente preposti nonché attraverso periti liberi professionisti.
La tesi opposta a quella qui sostenuta valorizza ovviamente elementi diversi e insiste soprattutto sulla necessità
pag. 7: che, per addivenire alla transazione, si dovrebbero comunque porre in essere attività che richiedono cognizioni giuridiche, quali l’accertamento delle modalità del fatto e la soluzione delle correlative questioni di diritto.
Si è già visto, peraltro, come un tale modo di argomentare non tenga conto della vera natura del negozio transattivo e della circostanza che le parti, anche quando pongono in essere un ed. negozio di accertamento, rendono in realtà certa la situazione preesistente dispondendone, in conformità col fatto che alle parti stesse compete, a differenza di quanto è a dirsi del giudice, un potere di disposizione e non un potere di accertamento in senso tecnico-giuridico (10).
Senza dire che, anche a voler qualificare come giuridica l’attività espletata in questi casi dal mandatario, si tratterebbe pur sempre, per le ragioni a suo luogo diffusamente esposte, di attività legale impropria e cioè non pertinente alla sfera processuale, con la conseguenza che questa stessa attività non potrebbe comunque essere ritenuta di competenza esclusiva dei soggetti regolarmente abilitati all’esercizio della professione forense.
IV) Si è visto così che la trattazione, anche abituale, di pratiche attinenti alla liquidazione dei danni, ove avvenga in sede stragiudiziale e allo scopo precipuo di pervenire ad un’amichevole composizione della vertenza, non costituisce esercizio abusivo della professione forense ed è, quindi, lecita e con sentita a chiunque, potendo dar vita, al più, a una ed. agenzia di affari, per il cui esercizio è richiesta semplicemente la licenza del questore di cui all’art. 115 del T.U. delle leggi di Pubblica Sicurezza approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773.
Si può pertanto passare ad affrontare il punto principale della problematica sottoposta ad esame, vale a dire se ai consulenti e patrocinatori di cui trattasi spetti senz’altro un compenso e se il rimborso delle spese sostenute a tale titolo dal danneggiato possa essere fondatamente richiesto all’autore del danno e, quindi, all’assicuratore della responsabilità civile.
Più in particolare, poiché si è già precisato nelle considerazioni preliminari che le spese in questione costituiscono, per loro astratta natura, una mera voce del danno emergente, si tratta ora di accertare quali presupposti debbono in concreto sussistere affinché tale voce di danno sia da considerare a tutti gli effetti risarcibile.
Per quanto riguarda la prima questione, e cioè il diritto al compenso dei consulenti e procuratori, la Commissione si limita a rilevare che i soggetti in parola -operino essi indi¬vidualmente o nell’ambito di uffici organizzati nella più artico-lata struttura di un’agenzia di affari – agiscono comunque nel quadro di un rapporto di lavoro autonomo ovvero, se l’incarico ad
pag. 8: essi conferito ricomprenda, come normalmente avviene, anche il compito di transigere in nome del danneggiato, nel quadro di un rapporto di mandato con rappresentanza (11).
Trattasi, in entrambi i casi, di prestazioni rese in dipendenza di contratti per loro natura onerosi e che comportano, quindi, un diritto al compenso, anche se non si potrà fare utilmente riferimento per la determinazione di esso a tariffe predeterminate, come quelle previste per le professioni la cui abilitazione è riservata dalla legge alla Pubblica Amministrazione.
Ciò posto, è chiaro che per affermare la piena risarcibilità anche di questa voce di danno occorre verificare preliminarmente se la relativa spesa è davvero resa necessaria dal fatto dannoso o se invece essa non possa ritenersi evitabile e sia quindi suscettibile di contestazione alla stregua del principio secondo cui il creditore deve comportarsi con diligenza e non aggravare, senza giustificato motivo, la posizione debitoria dell’obbligato.
In proposito la Commissione è del parere che l’istruzione e la trattazione con le controparti di una pretesa risarcitoria costituisce di solito attività tutt’altro che semplice e richiede comunque -oltre al possesso di indispensabili conoscenze tecnico-giuridiche di base, certo non note alla grande maggioranza dei danneggiati- un certo dispendio di tempo e di energie, che in ogni caso dovrebbe essere compensato direttamente all’interessato, ove detta attività fosse stata, in ipotesi, posta in essere personalmente da quest’ultimo.
Per contro, i consulenti e patrocinatori in discorso o dispongono di per sé di un adeguato bagaglio di cognizioni nella specifica materia o, comunque, sono in grado di reperire agevolmente nei singoli casi di specie i dati e le notizie necessarie alla trattazione della pratica, consultando gli esperti dei diversi settori.
Di questa esperienza ed assistenza, dunque, il danneggiato ha solitamente assoluta necessità per prospettare adeguatamente la domanda di risarcimento al civilmente responsabile e al di lui assicuratore, in quanto da solo non sarebbe di regola in grado di far valere i propri diritti. Né si potrebbe ragionevolmente pretendere, d’altra parte, che il danneggiato stesso debba affidarsi in questi casi esclusivamente alle valutazioni dell’assicuratore della responsabilità civile, il quale, per quanto si comporti in modo ineccepibile, è pur sempre portatore, nella dialettica che naturalmente si instaura fra le parti, di interessi del tutto contrapposti a quelli della vittima dell’illecito.
Ora, se l’assistenza di consulenti e patrocinatori deve essere remunerata e rappresenta -salvo prova contraria a carico dell’assicuratore- un elemento di cui il danneggiato ha bisogno per la realizzazione del proprio diritto, non si vede proprio come
pag. 9: sarebbe possibile evitare di conteggiare nella liquidazione complessiva del danno anche questa specifica voce.
Come detto, questo riconoscimento non è peraltro obbligatorio per l’autore dell’illecito e per l’assicuratore della responsabilità civile fino a quando una sentenza almeno provvissoriamente esecutiva abbia accertato la fondatezza della relativa spesa, con la conseguenza che, specie nella fase stragiudiziale, responsabile e assicuratore restano liberi di opporre motivate contestazioni.
In questo caso, sarà evidentemente la conclusione della lite in sede giudiziale a decidere della sorte definitiva della pretesa del danneggiato di essere risarcito altresì delle spese di assistenza e consulenza di cui trattasi, con tutte le ulteriori conseguenze nella ipotesi di accoglimento di detta pretesa da parte del giudice.
N O T E
1)PANNAIN, Brevi note sull’esercizio abusivo della professione, in Arch. pen. 1964, II, 434; ID., Osservazioni sull’esercizio abusivo della professione forense, in Giust. pen. 1962, I, 362.
2)MANZINI, Trattato di diritto penale, quarta ed. aggiornata da Nuvolone e Pisapia, vol. V, Torino, 1962, 550; Cass. 30 gen¬naio 1957, in Giust. pen. 1957, II, 893.
3)ANTOLISEI, Manuale di diritto penale -Parte speciale, II, Milano, 1972, 751.
4)MUSATTI, Prestazioni giudiziali e stragiudiziali, in Foro it. 1956, I, 475.
5)Cass. civ. 11 maggio 1966 in Mass. Cass. pen. 1966, m. 906. In particolare, Cass. 11 marzo 1964, in Mass. pen. 1964, m. 1863, ha escluso la sussistenza del reato di esercizio abusivo della professione forense proprio con riferimento alle attività svolte da una agenzia di pratiche infortunistiche per addivenire a transazioni sul danno.
6)Cass. 14 marzo 1940, in Annali 1941, 313; Cass. 22 febbraio 1938, in Annali 1939, 171.
7)Cass. civ. 13 aprile 1960, h. 870, in Giur. it. 1961, I, 1, 493, con nota di LEGA.
8)Pret. Bologna 7 luglio 1962. pag. 10:
9)Trib. Bologna 24 maggio 1963, in Critica pen. 1963, 284, se¬condo il quale “non commette esercizio abusivo della professione forense l’esercente di un’impresa infortunistica, il quale sovraintende a tutte le incombenze necessarie per ottenere il risarcimento del danno, affida a medici la parte medica e a legali la parte giudiziaria, tratta con gli istituti assicuratori e tenta e conclude transazioni, anche nel corso del giudizio eventualmente iniziato, anche assumendo le vesti,il piglio, il tono, l’apparenza del legale nei rapporti esterni con i suoi collaboratori, i suoi assistiti e gli istituti di assicurazione, in quanto tale attività, pur essendo connessa a quella giudiziale, non è riservata alla professione forense”.
9)Così, testualmente, SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, 177. Il quale, a riprova ‘dell’assunto, rileva come, in caso di divergenza tra la situazione reale e quella “accertata” dalle parti, vale comunque il regolamento dettato col negozio di accertamento.
10)Ciò significa naturalmente che l’assicuratore, prima di concludere una transazione con consulenti e patrocinatori che affermano di agire su incarico del danneggiato, avrà diritto di verificare il potere rappresentativo di detti soggetti, il quale dovrà risultare da apposita procura speciale. E siccome la transazione è negozio che richiede la forma scritta “ad probationem” e la procura è negozio preparatorio che deve rivestire la medesima forma di quello che deve concludere il rappresentante, ne deriva che la procura stessa dovrà, a sua volta, risultare da atto scritto a fini di prova: Cass. 29-4-1959, n. 1241, in Foro it., Mass. 1959, 235. Prof. Dott. Daniele de Strobel